La proposta di Ray

Alla fine ho deciso di accettare.

Dopo aver sbrigato le varie faccende del mese ingarbugliato di luglio, tra cui le pratiche con Ruud per il contratto di locazione del capannone, ci ho messo oltre una settimana per valutare la proposta di Ray e capire come eventualmente impostare il lavoro.

Giovedì scorso, l’8 agosto, lo chiamo, e gli comunico che accetto la commissione.
Ne è felice e chiede di vederci, per parlare dei dettagli e concordare le condizioni dell’accordo.
Gli dico che non ce n’è bisogno, possiamo fare tutto a distanza, ma lui insiste, vuole che parliamo da vicino, anche per rivederci e stare un po’ insieme. Sarebbe venuto lui ad Ischia.

Come ho accennato in precedenza, Ray è un ingegnere plurispecializzato e al contempo un imprenditore abile e dinamico.
È stata la sua passione per l’ingegneria e l’innovazione tecnologica a farlo diventare anche un grande imprenditore.
Ha iniziato a fare piccole operazioni commerciali ed investimenti quando, appena ventenne e non ancora laureato, si è reso conto che il modo migliore per sviluppare le sue idee in totale autonomia, a modo suo, senza dover chiedere il permesso a nessuno e senza intromissioni esterne, sarebbe stato l’autofinanziamento.

Da lì in poi non ha più smesso di farlo, attivando un circolo virtuoso.
Le attività commerciali gli hanno portato fondi per finanziare le sue ricerche, queste sono diventate nuovi prodotti e servizi, che hanno portato a nuovi investimenti, e via così. Tante fatiche e difficoltà, ma anche tante soddisfazioni.
In circa vent’anni ha messo in piedi un impero economico e industriale, partendo dagli Stati Uniti ed espandendosi in tutto il globo, con quella che oramai è una holding dalle numerose aziende e partecipate: Hedebel.

Una delle aziende, tra le prime fondate per autofinanziarsi, è l’Every Rental.
L’idea iniziale era quella di creare un’attività che noleggiasse qualunque cosa in qualunque luogo ce ne fosse bisogno.
Ad oggi è arrivata ad occuparsi del noleggio di immobili e mezzi di trasporto per ogni genere di utilizzo, di aria, terra e mare; ed è arrivata a farlo in tutto il globo, con investimenti già avviati in concessioni e infrastrutture per allargarsi anche fuori dalla Terra, nello spazio, nuovo orizzonte industriale e commerciale di tanti settori.

Sebbene l’abbia fondata come una delle attività per finanziarsi, c’è stato anche un altro utile risvolto.
Ovunque si trovi, ha sempre modo di muoversi tempestivamente e a suo piacimento in giro per il pianeta, a qualunque ora.

Così, quando durante la telefonata gli chiedo quando avrebbe preferito venire, in modo da organizzarmi per andare a prenderlo al porto – come molte volte faccio quando ho ospiti dalla terraferma – lui mi dice di non incaricarmene, si sarebbe mosso autonomamente.
Mi chiede solo l’indirizzo di casa, se ho posto per parcheggiare un’altra automobile e se sarebbe potuto venire il prima possibile, tipo il giorno dopo. Gli dico di sì, spazio in abbondanza per altre automobili, essendomi appena trasferito in un capannone con molta terra attorno; e sì, sarebbe potuto venire il giorno dopo.

Venerdì 9 era già volato qui dal Mar Arabico, al largo di Mumbai, dove era in vacanza sul suo yatch.
Dallo yatch a Mumbai in elicottero, da Mumbai a Napoli in aereo, e da lì un altro elicottero lo porta fino all’Eliporto di Casamicciola, dove alcuni operatori del centro Every Rental di Napoli gli fanno trovare un’automobile.

Mi bussa, battendo ad una delle porte del capannone, quella fronte panorama sul paese, che è anche la prima che si vede arrivando in auto.
Non ho ancora stabilito un ingresso principale e non ho campanelli funzionanti. Ci vorrà tempo per sistemare queste cose.
Vado ad aprire, e me lo trovo davanti, pimpante e sorridente, con alle sue spalle l’auto. Non c’era nessun altro, aveva guidato lui.
Saluti, abbracci e lo faccio accomodare.

Appena entra si guarda intorno, perdendosi con lo sguardo in altezza. Resta abbastanza stupito del posto in cui ho deciso di vivere.
Incuriosito, mi chiede spiegazioni. Gli do quelle che ho dato anche a Ruud in fase di contrattazione. Se le fa bastare, ma vorrebbe sapere di più. Sente che c’è dell’altro, è evidente dall’espressione interrogativa con cui annuisce.
Il fatto è che non so cosa aggiungere. Nemmeno io so tutto. Non lo so mai.

Gli faccio presente che, se vuole, può restare, anche se la casa è pressappoco spettrale e non è per niente pronta ad ospitare qualcuno, oltre il sottoscritto.
Ho solo un letto matrimoniale, in cui avremmo dovuto dormire insieme. Il bagno è funzionale, ma molto minimale al momento. E la zona pranzo pure è alla buona, con giusto cucina, frigorifero, microonde e un tavolo con quattro sedie.
Mi aspettavo che mi dicesse di no, di avere un hotel sull’isola in cui andare a soggiornare, tra gli svariati immobili che ha sparsi per il mondo. E in effetti sì, ne ha uno. Ma, con mia grande sorpresa, accetta l’invito.
Così prende la borsa dall’automobile e si stabilisce da me. Ha l’aria di chi è interessato alla situazione e vuole osservarla da vicino.

Stando in questo modo le cose, decido di prendermi anche io qualche giorno di pausa dal lavoro, per passare del tempo con lui, con cui comunque avremmo dovuto parlare anche di quello.

Venerdì arriva che è pomeriggio, e passiamo il resto della giornata a casa.
Lo faccio sistemare e ambientare fino a sera, quando per cena cuciniamo una semplice pennetta con pomodorini freschi e basilico di stagione. Mi sono ritrovato qualche pianta di entrambe le cose in una zona del terreno.
Durante tutto il tempo chiacchieriamo della qualunque: il suo viaggio per arrivare qui, la mia nuova casa, il lavoro, il tempo e l’estate ad Ischia, finché, a notte inoltrata, verso le tre, dopo una sigaretta e un bourbon, ci mettiamo a letto.

Sabato ci alziamo con calma e facciamo colazione.
Poi, in tutta scioltezza, concordiamo che la giornata è troppo luminosa e invitante per non andare a mare.
Indossiamo il costume, borsa in spalla, e andiamo a prendere un po’ di sole e a fare un tuffo nella selvaggia Spiaggia di Cava dell’Isola.

Saliamo da lì prima del tramonto e ci dirigiamo verso un bar della zona, all’aperto e sempre sul mare, per un aperitivo.
È qui che cominciamo ad intavolare l’accordo circa la commissione.

Casa

È rimasto ancora qualche pacco da disfare, qualche altra cosa da sistemare, ma il grosso è andato.

Anche se mi sono trasferito ufficialmente in questa casa da circa un mese ormai, il tempo da poter dedicare alla sistemazione è stato poco.

Ci sono periodi in cui le giornate vanno avanti per mesi e anni un po’ letargiche, tutte più o meno uguali, quasi per inerzia, ed altri in cui vivi un vortice di cambiamenti che ti risucchia, e quando ti sputa altrove, quasi non ti rendi conto di come sia successo, a stento tenendo il timone.

Nel mio caso non è nessuna delle due situazioni.
Erano dieci anni che stavo lavorando coscientemente e quotidianamente per arrivare ai cambiamenti odierni. Sono proprio io che ho voluto condurli tutti insieme, per farli convergere nello stesso punto spaziotemporale, in cui viverli come un unico grande cambio di mondo, e annegarci dentro nel momento culminante.

Ogni tanto è interessante farlo, quando ti stanchi di te stesso.
Ti butti lì, in qualche ignoto abisso del tuo altrove, come un sacco dell’immondizia. Ti ci perdi, ti frulli insieme alla fantasmagoria di ricordi e desideri che ci trovi, e ti dai fuoco. Dopodiché, tolta la cenere, non resta che la piccola sfera, l’essenza eterna che sei, linda e pinta. Un uovo multidimensionale nel vuoto cosmico. E da qui ne esci fuori nuovo, rinato.
Una botta di vita, una nuova avventura.

Comunque la nuova casa non è proprio una classica casa.
È un vecchio capannone industriale in disuso. Misura 30 metri di lunghezza, 20 metri di larghezza e 10 metri di altezza, ed è situato al centro di un terreno di 3000 m². Tolti i 600 m² occupati dal capannone, restano 1400 m² di bosco e 1000 m² di terra, parte della quale battuta e parte no.
Il tutto, isolato da altre case per un raggio di circa 100 metri, si trova in una zona tra Lacco Ameno e Forio, ai piedi del versante nord-ovest del Monte Epomeo. Alle spalle si estende un bosco di querce e castagni, che arriva fino alla punta del monte, e che include anche la piccola porzione appartenente alla proprietà. Di fronte, la vista si apre sui due comuni, fino al tramonto sul mare.

Volevo vivere in un capannone così da quando ero poco più che ventenne, e non riuscivo a prendere nemmeno un monolocale in affitto, mentre da una parte lavoravo per pochi spicci e dall’altra portavo avanti i miei progetti.
Da allora, nella tipica fiducia dello squattrinato pieno di sogni che ero, non ho mai smesso di guardarmi intorno per individuarne uno, anche solo per iniziare a proiettarmici.
Lo volevo spettrale e in totale stato di abbandono, in una zona sperduta di una qualche grande metropoli in cui nessuno mi conoscesse, magari da occupare, per farci una vita underground, in solitudine o quasi, e invisibile al resto del mondo.

Oggi invece ne prendo uno come farebbe una persona normale, inserita nella società.
Mi informo presso un po’ di professionisti sullo stato legale e strutturale dello stabile, discuto le condizioni dell’accordo col proprietario, firmo un contratto, organizzo il trasferimento.
Anche se non è andata esattamente così fin dall’inizio. È che lo spirito mi resta selvaggio. Ma per ora sorvolo su come ho approcciato la prima volta a questa struttura, un anno fa circa ormai.

È cambiato il modo di muovermi nella società, da quando ho imparato a starci e ad essere anche un normale cittadino, ma non è cambiato il desiderio di vivere una roba del genere, a modo mio.
I motivi non erano ben chiari ieri, e ancora oggi non lo sono del tutto, alla mia mente. Era e resta anzitutto un input di spirito, ma tanto basta.

La strada me l’ha sempre battuta lo spirito, attraverso intuito, intimo sentire e immaginazione, che hanno delle ragioni tutte loro.
La mia mente, ricca di qualità e potenzialità, come quella di chiunque, è un formidabile strumento, ma se non arriva ancora a capire le ragioni del mio spirito, non è un problema.
Anzi, il verificarsi di questa circostanza in genere mi si rivela poi essere il segno che la strada è quella buona, se quel che voglio è scoprire un nuovo aspetto, un nuovo mondo, una nuova dimensione, dentro e fuori di me, oltre il mio limite di esperienza e sapienza attuale, e così crescere in tutte le direzioni. Altrimenti non sarebbe nuovo, non sarebbe una scoperta, e non desterebbe meraviglia nella mente stessa, aprendola a nuovi orizzonti.

Al momento l’ho preso in affitto, a determinate condizioni.
Quando mi sono trovato faccia a faccia con uno dei proprietari e gli ho spiegato che ero interessato al capannone come abitazione, ha considerato la cosa un po’ strana. Perché qualcuno dovrebbe voler vivere in un posto del genere?
Ho cercato di fargliela semplice. Gli ho detto che volevo vivere in un ampio open space e in una zona moderatamente isolata. Che poi è la verità, vista da una certa prospettiva.

Lui mi ha detto che stava cercando di locarlo a qualcuno che ne facesse un uso industriale, nonostante fosse legalmente utilizzabile anche come residenza.
Non ne ha fatto una questione di principio, quanto più che altro di costi, presumibilmente troppo alti per una singola persona non intenzionata a farne una fonte di ricavi.

Insomma, mi stava invitando a calare le carte, cercando di capire cosa facessi per vivere e quanto fossi disposto a spendere.
Io ho colto l’invito, ma ho calato lo stretto necessario. Gli ho detto che per me avremmo potuto parlarne. Quindi gli ho chiesto le cifre, sia dell’affitto che della vendita, nel caso stesse considerando anche quest’ultima ipotesi.

Quando mi ha sentito parlare di vendita, ha cambiato atteggiamento, anche se non lo ha dato troppo a vedere.
Era evidente che se ne volesse disfare. Ma questo già lo sapevo, era tra le informazioni che avevo ottenuto.

I proprietari, i Van Woud, sono originari di Rotterdam.
Hanno ereditato questa proprietà dai genitori, che ci hanno condotto un’industria tipografica per qualche decennio.
Passata ai figli, nessuno ha voluto seguire le orme di famiglia e rilevare l’attività. Dunque hanno preferito liquidarla, per recuperare subito quanto più possibile, dopodiché hanno incaricato uno tra loro di occuparsi della struttura. Si tratta di Ruud Van Woud, quello con cui mi sono relazionato.

Ruud ha sempre cercato di darla in affitto, anche attraverso le agenzie, senza però mai riuscirci. Così il capannone è rimasto per anni in disuso.
Un po’ per questo, un po’ per la volontà di liberarsi dell’impegno, e un po’ per ricavarci qualcosa, dopo anni di perdite per le spese di proprietà, vorrebbe anche e soprattutto vendere.

Perciò mi sono mostrato interessato anche ad un eventuale acquisto; sia per farlo ben disporre, sia perché ero davvero intenzionato a valutare questa opzione, anche se non per l’immediato.
Mi premeva soltanto iniziare a metterci un piede dentro.

Non si è fatto pregare troppo, a quel punto, e ha deciso di andare al sodo.
Mi ha chiesto 5.000 € per l’affitto mensile di tutta la proprietà, capannone, terreno e bosco, e 1.500.000 € per la vendita.
Nel range di prezzi che avevo ottenuto dal consulente al quale mi ero affidato per la valutazione, queste cifre rientravano perfettamente.
Le minime si attestavano su 5.000 € per l’affitto e 1.200.000 € per la vendita, mentre le massime rispettivamente su 10.000 € e 1.700.000 €.

Tutto sommato onesto.
Si è mantenuto sulla valutazione minima per l’affitto – probabilmente ha voluto considerare che ne avrei fatto un uso residenziale e non commerciale – e su una valutazione media per la vendita.
Una buona strategia per ottenere almeno un mensile, che è meglio di tenerlo ancora vuoto e in perdita.
Voleva davvero darlo, in qualunque modo, ma senza svalutarlo troppo in caso di vendita.

È un capannone dalla struttura ancora solida, per quanto vecchiotta e con manutenzione ridotta al minimo; sicuramente da ristrutturare e adeguare, per farne una vera abitazione, a partire da impianti ed alcuni ambienti.
Così, considerando tale situazione, e volendo arrivare ad un accordo buono per entrambi, gli ho fatto la mia proposta.

Ho acconsentito ai prezzi da lui stabiliti, senza contrattare al ribasso, ma gli ho chiesto di venirmi incontro su una richiesta, cioè un contratto rent to buy per cinque anni, senza obbligo di riscatto.
Significa che per la durata del contratto posso esercitare il diritto, e non l’obbligo, di riscattare la proprietà, sottraendo al pagamento totale quanto già versato durante il periodo di locazione.

Ha accettato subito proposta e condizioni, ma con l’aggiunta di una clausola.
Ha chiesto il diritto di vendere a terzi, con conseguente decadenza del mio contratto, nel caso qualcun altro dovesse avanzare una proposta di acquisto durante i cinque anni, e io non avessi ancora esercitato il mio diritto, garantendomi però di informarmi e darmi priorità, dunque la possibilità di decidere se riscattare – ma pareggiando l’altra offerta, se più alta del prezzo fissato con me – o lasciare definitivamente.

Ho accettato la clausola, ma chiedendo di modificarla.
Se dovesse esserci l’offerta di un altro acquirente, ed io, informato, decidessi di esercitare il riscatto, lo farei comunque al prezzo concordato di 1.500.000 €, dunque esente dal dover pareggiare l’altra offerta.

In questi casi non è inusuale che il proprietario chieda ad un complice di fare, ad un certo punto del periodo di contratto, una falsa offerta di acquisto più alta, che non andrà mai in porto, solo per vedersela pareggiare dall’unica persona realmente interessata, e in tal modo non solo affrettando la vendita, ma concludendola ad un prezzo maggiorato rispetto a quello precedentemente concordato.
Certo, in tal caso io potrei andare a vedere il bluff, lasciando che proceda con l’altra offerta, per poi magari sentirmi dire che non se ne è fatto niente, e avrei ancora il mio contratto in mano. Però diventerebbe una situazione cervellotica, spiacevole e seccante, a cui dover stare dietro con un gioco di spionaggio che non ho nessuna voglia di fare.
Ruud non mi è sembrato un tipo disonesto, ma ho preferito eliminare ogni dubbio e puntare ad un risultato sicuro e immediato.

A questo punto ha titubato, e dopo alcuni secondi di riflessione mi ha detto che avrebbe dovuto consultarsi con la famiglia. Si sarebbe fatto vivo lui.
Forse un tentativo di fare pressione, non so, ma non me ne sono curato. Non aveva mai ricevuto offerte concrete, per quello che ne sapevo, prima della mia.
Gli ho lasciato il mio numero e gli ho detto che avrei aspettato sue notizie.

Mi ha chiamato tre giorni dopo, dicendomi che accettava le ultime condizioni da me poste, e chiedendomi di vederci quanto prima per avviare tutte le pratiche.
Nel giro di un mese abbiamo completato l’iter, tra avvocati, notaio e tutto il resto. Abbiamo finito ieri.
E intanto ho anche fatto il trasferimento delle mie cose. Poca roba in realtà, principalmente la workstation per lavorare, vestiti e la mia biblioteca personale, tutta sistemata nelle scaffalature industriali che ho trovato qui.

Insomma, ho il mio bel contratto, e cinque anni per poter riscattare questa meraviglia vecchia e trasandata, da cui ora sto scrivendo.

Non è il massimo dell’abitabilità, ce ne vorrà per renderla una vera e propria casa confortevole, ma l’importante adesso era entrarci. Il resto verrà.
Per ora mi godo l’ambiente spettrale e underground. I lavori e l’arredamento li farò se e quando eserciterò il riscatto. Fino ad allora non vale la pena farci grosse spese, oltre quelle indispensabili.

Certamente costa tanto, sia l’affitto che l’eventuale acquisto, ma sentivo di voler stare qui, almeno per ora. E poi la nuova attività lavorativa, avviata da due anni ormai, sta andando molto bene e me lo consente.
Senza contare la proposta di lavoro di Ray fattami durante il mio compleanno. Aldilà dei miei dubbi, è una bella offerta economica.
Dovessi accettarla, potrei esercitare il riscatto anche immediatamente, senza mettere mano al saldo attuale del conto.

Ad oggi non ho ancora avuto modo di rifletterci bene, ma avevo avvisato Ray che avrei avuto un periodo un po’ incasinato, e che non avrei potuto dargli risposta a stretto giro.
Per correttezza l’ho anche invitato a cercare qualcun altro, magari più convinto di me ad accettare il lavoro e disponibile ad iniziarlo fin da subito.
Lui però mi ha detto di prendermi il tempo necessario per pensarci, senza darmi termini ultimi. Inoltre mi ha dato carta bianca su praticamente tutto, pur di farmi accettare.
Ha proprio bisogno che me ne occupi io, per vari motivi.

Anche per questo non voglio farlo aspettare oltre.
Passato questo mese turbolento, adesso posso finalmente valutare la proposta con la dovuta attenzione.
Penso che riuscirò a dargli una risposta entro i prossimi giorni.

Si balla

Sono sulla Spiaggia dei Maronti, in un lido in stile tiki beach, da cui sto scrivendo.

Il tramonto sta appena andando, anche se da qui non si vede, ed inizia la parte della giornata che preferisco, quella illuminata dalla rubedo.
L’aperitivo si appresta a finire, con calma, nell’attesa della serata, ma io sono qui da stamattina, per i miei 38 anni, dopo tanto tempo che non mi prendevo il lusso di festeggiare il mio compleanno.

Tutto il giorno sdraiato sul lettino, al sole rovente, tra le carezze di una brezza morbida e leggera, davanti al mare increspato.
Da solo, in totale relax, con un hurricane sempre pieno di Piña Colada in una mano, e nell’altra una torcetta della felicità fatta con un ottimo fumello nepalese, volando con il cuore e con la mente insieme ai gabbiani, e sorridendo al pensiero di tutto quello che mi sono lasciato definitivamente alle spalle la scorsa notte.
Una gioventù in balìa del mondo esterno, mentre cercavo di scoprire il mio, per poi passare anni ad imparare a padroneggiarli entrambi, ed infine arrivare a godermi spensieratamente un momento del genere, da uomo libero, centrato e realizzato.

È bello passare giornate di questo tipo, di relax e divertimento. Potrei prenderci gusto, e magari vivere così tutta la vita, come molti dicono di desiderare.
Ma no, non me ne viene. Le vivo invece come una pausa, momenti di vuoto che spezzano e scandiscono ciò che è stato da ciò che di nuovo ha da venire.
Perché, ad una certa, il vento chiama. Chiama sempre. E mi piace.

Però questo vale oggi che ho imparato a conoscerlo e viverlo, il mio vento, felice di ciò che faccio e in pace con me stesso.
Allora anche il relax e il divertimento hanno un nuovo sapore, più vivo e soddisfacente rispetto a prima, e riesco a viverli appieno, senza riserve.
Il miglior compleanno della mia vita.

Fatto sta che ad ora di pranzo mi viene un certo languore, per cui la smetto di fare l’aragosta e mi alzo dal lettino, sforzandomi di incedere verso i tavoli del bar come una persona normale, ma più probabilmente andando con passo da oca rincoglionita, cioè fatto e alticcio.

Di norma non bisognerebbe mischiare alcol e hashish, soprattutto in grandi quantità. Qualche rischio può esserci, dipende da tanti fattori, come quadro clinico generale e stato d’animo del momento. Ma mi conosco abbastanza da sapere come divertirmi e gestirmi senza far danni a me e agli altri. Inoltre me lo concedo solo ogni tanto, in occasioni come queste.

Anche se ci metto un po’, arrivo alla sala.
Avevo già un tavolino prenotato per una persona, sul parapetto all’aperto, sotto una tettoia di fresche e abbondanti foglie di palma, con vista spiaggia e mare.
La cameriera, tanto gentile da non badare troppo al mio andamento scanzonato, mi indica il tavolo e mi fa accomodare, per poi prendere l’ordinazione.

Le chiedo insalata di polpo per antipasto e uno scialatiello cozze e fantasia come primo. Almeno penso di averglieli chiesti. O forse le ho solo indicato i piatti sul menù. In ogni caso, mi sono arrivati, e sono stati chimici. Buonissimi, volevo dire sono stati buonissimi.
Il tutto accompagnato da due bionde medie alla spina, una caraffa di vino e percoche, che ci sta sempre bene sulla spiaggia, e una tequila sale e limone come fresco digestivo finale.

Di norma non bisognerebbe mischiare birra e vino. Ma vabbè, oggi è così.

Alcune persone, nel vedermi bere birra quando si mangia fuori, non si capacitano. Per loro bisogna andare rigorosamente sul vino, preferibilmente italiano o francese.
Io un po’ di vino lo posso anche bere, ma poi la birra la prendo comunque, non ci sono santi.

A quattordici anni, nel 2001, durante un viaggio di famiglia in Austria, mi feci la mia prima scorpacciata di pils.
I camerieri erano un po’ titubanti, ma garantirono i miei genitori, a cui sono grato di avermi fatto scoprire la birra partendo da quella del Mitteleuropa. Una roba eccezionale.
Da lì in poi non ho più smesso di berne e scoprirne.

Tuttavia, che sia italiana, austriaca, tedesca, danese, belga, irlandese o marziana, non importa.
Pur apprezzandone le differenze e avendone di preferite, mi va bene qualunque. Basta che sia bionda, alcolica e bella ghiacciata.

E insomma, in attesa dell’antipasto, inizio a sorseggiare la prima, quando vedo la cameriera parlare con un uomo e indicare in mia direzione.
Il tizio, direi più o meno mio coetaneo, un po’ più alto di me, uno e novanta circa, biondo, occhi nocciola, pelle marrone chiaro e moderatamente palestrato, si avvicina al mio tavolo.
Mi parla in italiano, ma con quella che subito mi sembra una cadenza americana, benché leggera.

«Finalmente l’ho trovata, quasi non ci speravo» mi fa.
«Salve» gli faccio, guardandolo con circospezione.
«Mi scusi, lo so che oggi è in vacanza, ma lei è difficile da reperire, ed ho colto al volo la prima occasione utile che ho avuto. Mi chiamo Raymond Douglas, per gli amici Ray» e mi porge la mano.
Incuriosito, non mi nego. «Piacere, Scott Overy» e gliela stringo.
«Scott Overy?» dice, guardando il telefono. «La foto corrisponde, ma il nome che mi hanno dato no» e mi mostra lo schermo, in cui è aperta una sua conversazione di chat con una persona che non conosco.
Guardo la foto, leggo il nome. «Sì, alcune persone mi conoscono col nome che le hanno dato, ma mi chiamo Scott Overy. E quello nella foto sono io. Non si preoccupi, sta cercando proprio me».
«Ok, Mr. Overy. L’importante è averla trovata. Le chiedo solo pochi minuti, almeno per introdurle il motivo per cui sono qui. Dopodiché, se vuole continuare ad ascoltarmi, proseguo, altrimenti me ne vado senza battere ciglio» e dà una rapida occhiata alla sedia all’altro capo del mio tavolino.
«D’accordo Mr. Douglas, si accomodi. Mi dica pure.»

Da qui in poi tutta una faccenda che evito di spiegare nei dettagli, perché è un discorso lungo e non è questo il momento adatto, quindi la faccio breve.

Raymond Douglas, un ingegnere plurispecializzato e imprenditore proveniente da New York, aveva bisogno di commissionarmi un lavoro.
Ero arrivato al suo orecchio attraverso il passaparola, e aveva pensato che facessi proprio al caso suo.
Per rintracciarmi aveva dovuto ripercorrere il passaparola a ritroso, mettendoci perciò un po’ di tempo prima di avere qualche informazione.
Non era riuscito ad ottenere un mio contatto, né a sapere dove abitassi di preciso, ma un mio nome e una foto sì. Aveva saputo anche dove sarei stato oggi; ne avevo parlato casualmente ad una mia amicizia, la persona che tempo prima aveva dato il là a questo giro di voci arrivato poi anche a lui.

Così me lo ritrovo oggi al tavolo ad ora di pranzo, durante il mio compleanno, festeggiato di nuovo dopo tanti anni, con una giornata solitaria di totale nullafacenza e ignoranza, sotto il sole rovente di Barano, mentre, già più che allegro di nepalese e svariati Piña Colada, stavo sorseggiando la mia prima pinta del pranzo, e stavo aspettando di divorarmi anche il cuoco.
E mi viene a parlare di lavoro.

Lo avrei voluto mandare a quel paese sulle prime, ma stavo troppo appaciato, e tutto sommato sembrava anche simpatico, con quel suo fare bonario.
Inoltre si è subito scusato per il momento inopportuno, perché era stato avvisato che ero in pausa dal lavoro e che non mi piace essere tallonato, ma era l’unico modo per beccarmi a stretto giro, e non voleva rischiare di rimandare a chissà quando.

A quel punto, anziché mandarlo via, mi viene l’idea di prendere in mano la situazione, e farlo diventare una buona compagnia per coronare la giornata pacchiana.
Così, dopo i primi minuti in cui mi introduce la faccenda, gli dico che avremmo potuto continuare a parlarne solo se avesse pranzato con me, per poi passare il resto della giornata a spassarcela insieme.
Non solo ha accettato, ma è sembrato subito a suo agio con la situazione, come se non aspettasse altro. Era venuto anche in costume e con la borsa da mare.

Abbiamo pranzato, parlato di tutto ciò che dovevamo e passato insieme il pomeriggio. E adesso eccolo là, a fare il provolone al bancone del bar con quelle due ragazze.
Ray. Davvero un bel tipo, molto componente e pieno di spirito. Mi sa che mi sono fatto un nuovo amico.

Circa la sua proposta, inizialmente l’ho rifiutata senza pensarci due volte. Mi ha chiesto di occuparmi di una roba che non tratto più.
Tuttavia, dopo aver ascoltato i motivi del mio rifiuto, ha fatto di tutto per rendermi il lavoro fattibile e stimolante, lasciandomi carta bianca sulle modalità di svolgimento, e facendomi anche una corposa offerta economica.
A queste condizioni è difficile rifiutare, ma gli ho comunque detto che ci devo pensare con calma, certamente non oggi.

Intanto la console sta passando dal lounge del tramonto al ritmo della serata.
Ray mi sta facendo cenno di chiudere il laptop e raggiungere lui e le due giovanotte con cui ha attaccato bottone, e con cui adesso stanno prendendo un drink.
Già un quarto d’ora fa – dopo essersi svegliato, aver fatto un tuffo a mare, essere tornato ed avermi visto al pc – mi ha sollecitato, dicendomi che non era il momento di mettermi a scrivere, qualunque cosa stessi scrivendo. Poi l’ho visto guardare dritto verso il bar.
Gli ho detto di darmi ancora un po’ di tempo e di avviarsi, che mi era venuta l’ispirazione per fare una cosa, e che a breve avrei finito.

Volevo aprire questo blog.
L’idea mi era venuta anni fa, ma all’interno di un progetto più ampio, e c’era molto da maturare prima di partorirlo. Una lunga gestazione.
Immaginavo che lo avrei aperto nel giorno del mio 38° compleanno, anche se non ne ero certo.
Questioni simboliche, ma anche sostanziali.

E così è andata.
Ieri notte la gestazione si è conclusa, iniziando anche il parto. Quindi stamattina ho messo il laptop in borsa, per ogni evenienza.
Il lavoro vero e proprio, quello di ore e ore ininterrotte, lo faccio solo a casa, dove posso avvalermi della workstation con pc fisso. Però il laptop lo porto spesso con me, in quei giorni che sto in giro e so che potrei comunque avere tempo e modo di farmi venire qualche idea, svilupparne altre già abbozzate, o cose cosi. Giorni come questo.

Eppure quasi non ci ho pensato tutta la giornata. E non ci stavo pensando fino ad un paio di ore fa, quando dopo pranzo, ritirati sui lettini, sotto gli ombrelloni, finito di chiacchierare e spenta la torcetta della controra, Ray ha preso sonno, ed io sono rimasto tra me e me, nelle belle ore che ti conducono dolcemente verso il tramonto.
Stavo quasi per addormentarmi anche io e raggiungere Ray, quando mi assesto in quella condizione dove non sei sveglio e non stai dormendo.
Lì, in quella zona mediana, mi è venuto l’input. Come quando il vento, all’improvviso, nel bel mezzo della bonaccia, ti attraversa e ti chiama. Era il momento.

Mi desto, mi metto a gambe incrociate sul lettino, laptop sulle gambe e via.
L’hosting già lo avevo, quello che uso per lavoro. Anche il dominio lo avevo registrato da qualche anno, insieme ad altri accumulati nel tempo, che non si sa mai.
Configuro tutto tra pannello di controllo e client, carico il CMS ed apro i battenti. Un’altra mezz’ora per arrangiare la grafica, ed eccomi qua a scrivere questo primo post. Ci sarà tempo poi per curare eventualmente i vari dettagli strutturali ed estetici.

È dai primi anni 2000, quando ero adolescente, che apro e chiudo blog, oltre a leggere quelli degli altri. Poi mi sono preso una discreta pausa dall’averne uno, fino ad oggi.
Nonostante sia passato del tempo, è ancora la forma digitale che preferisco per creare e condividere. Anche perché, essendo di fatto un sito web, è caratterizzabile senza limiti, se ci lavori anche di codice e grafica. Può diventare un’opera d’arte dinamica, che procede e cambia con te.
Così come ho sempre preferito la blogosfera come ambiente digitale. Non devi chiedere il permesso a nessuno per avere uno spazio solo tuo, in cui essere e creare liberamente, in un contesto di altre individualità che fanno altrettanto, tra cui avventurarti e con cui eventualmente entrare in contatto. Persone sconosciute che post dopo post possono diventare letture e compagnie quotidiane, amicizie di penna, o magari di più.

Internet, come il mondo, è sempre in movimento, continua a cambiare, adesso ampliandosi verso nuove modalità di interconnessione, esperienze e dinamiche, tra Web3, AI e visori. E continuerà a farlo.
Quello che non cambia, per me, è che aprire un nuovo blog è sempre una bella emozione.

Ma Ray sta sbracciando vistosamente.
Lui e le ragazze stanno al secondo drink, e la console sta entrando nel vivo della serata.
Mi sa che come nuovo primo atto del blogger eterno che è in me, può bastare.
Adesso è il momento di chiudere questo post, il laptop, e andare in pista.

Amo ballare.
Lo faccio anche da solo a casa, ma farlo con un nuovo amico e due allegre ragazze che vogliono divertirsi, tra la gente, con strobo, ghiaccio secco e un dj in carne ed ossa in console che ti fa mixaggi e transizioni, è la fine del mondo.
Una roba senza paragoni, se ti piace il mood ovviamente.

Dj di cultura, tra l’altro. Ha appena messo “Elena (Manox Rmx Edit)” di Marc Korn feat. Miani. Una canzone di una decina di anni fa, versione remix. La sento raramente nelle serate, ma è nelle mie playlist.
Alcune amiche mi prendono in giro quando la metto in macchina. Dicono che è trash. Altri amici invece dicono che sembra una canzone di chiesa.
Per me invece è bellissima. Porca miseria se lo è.

Amo la musica, ascolto di tutto, e mi piace ampliare gli orizzonti, alla ricerca di cose vecchie e nuove.
Ma niente mi manda fuori di testa, mi apre il cuore e me lo fa zampillare di gioia come la dance.
Soprattutto quando è così solare e ricca di vitalità. Ti accende l’estate.

Vado, scappo, volo. Elena chiama. Si balla.

Sei la luce che mi porta via
Che allontana questa nostalgia