Sono sulla Spiaggia dei Maronti, in un lido in stile tiki beach, da cui sto scrivendo.
Il tramonto sta appena andando, anche se da qui non si vede, ed inizia la parte della giornata che preferisco, quella illuminata dalla rubedo.
L’aperitivo si appresta a finire, con calma, nell’attesa della serata, ma io sono qui da stamattina, per i miei 38 anni, dopo tanto tempo che non mi prendevo il lusso di festeggiare il mio compleanno.
Tutto il giorno sdraiato sul lettino, al sole rovente, tra le carezze di una brezza morbida e leggera, davanti al mare increspato.
Da solo, in totale relax, con un hurricane sempre pieno di Piña Colada in una mano, e nell’altra una torcetta della felicità fatta con un ottimo fumello nepalese, volando con il cuore e con la mente insieme ai gabbiani, e sorridendo al pensiero di tutto quello che mi sono lasciato definitivamente alle spalle la scorsa notte.
Una gioventù in balìa del mondo esterno, mentre cercavo di scoprire il mio, per poi passare anni ad imparare a padroneggiarli entrambi, ed infine arrivare a godermi spensieratamente un momento del genere, da uomo libero, centrato e realizzato.
È bello passare giornate di questo tipo, di relax e divertimento. Potrei prenderci gusto, e magari vivere così tutta la vita, come molti dicono di desiderare.
Ma no, non me ne viene. Le vivo invece come una pausa, momenti di vuoto che spezzano e scandiscono ciò che è stato da ciò che di nuovo ha da venire.
Perché, ad una certa, il vento chiama. Chiama sempre. E mi piace.
Però questo vale oggi che ho imparato a conoscerlo e viverlo, il mio vento, felice di ciò che faccio e in pace con me stesso.
Allora anche il relax e il divertimento hanno un nuovo sapore, più vivo e soddisfacente rispetto a prima, e riesco a viverli appieno, senza riserve.
Il miglior compleanno della mia vita.
Fatto sta che ad ora di pranzo mi viene un certo languore, per cui la smetto di fare l’aragosta e mi alzo dal lettino, sforzandomi di incedere verso i tavoli del bar come una persona normale, ma più probabilmente andando con passo da oca rincoglionita, cioè fatto e alticcio.
Di norma non bisognerebbe mischiare alcol e hashish, soprattutto in grandi quantità. Qualche rischio può esserci, dipende da tanti fattori, come quadro clinico generale e stato d’animo del momento. Ma mi conosco abbastanza da sapere come divertirmi e gestirmi senza far danni a me e agli altri. Inoltre me lo concedo solo ogni tanto, in occasioni come queste.
Anche se ci metto un po’, arrivo alla sala.
Avevo già un tavolino prenotato per una persona, sul parapetto all’aperto, sotto una tettoia di fresche e abbondanti foglie di palma, con vista spiaggia e mare.
La cameriera, tanto gentile da non badare troppo al mio andamento scanzonato, mi indica il tavolo e mi fa accomodare, per poi prendere l’ordinazione.
Le chiedo insalata di polpo per antipasto e uno scialatiello cozze e fantasia come primo. Almeno penso di averglieli chiesti. O forse le ho solo indicato i piatti sul menù. In ogni caso, mi sono arrivati, e sono stati chimici. Buonissimi, volevo dire sono stati buonissimi.
Il tutto accompagnato da due bionde medie alla spina, una caraffa di vino e percoche, che ci sta sempre bene sulla spiaggia, e una tequila sale e limone come fresco digestivo finale.
Di norma non bisognerebbe mischiare birra e vino. Ma vabbè, oggi è così.
Alcune persone, nel vedermi bere birra quando si mangia fuori, non si capacitano. Per loro bisogna andare rigorosamente sul vino, preferibilmente italiano o francese.
Io un po’ di vino lo posso anche bere, ma poi la birra la prendo comunque, non ci sono santi.
A quattordici anni, nel 2001, durante un viaggio di famiglia in Austria, mi feci la mia prima scorpacciata di pils.
I camerieri erano un po’ titubanti, ma garantirono i miei genitori, a cui sono grato di avermi fatto scoprire la birra partendo da quella del Mitteleuropa. Una roba eccezionale.
Da lì in poi non ho più smesso di berne e scoprirne.
Tuttavia, che sia italiana, austriaca, tedesca, danese, belga, irlandese o marziana, non importa.
Pur apprezzandone le differenze e avendone di preferite, mi va bene qualunque. Basta che sia bionda, alcolica e bella ghiacciata.
E insomma, in attesa dell’antipasto, inizio a sorseggiare la prima, quando vedo la cameriera parlare con un uomo e indicare in mia direzione.
Il tizio, direi più o meno mio coetaneo, un po’ più alto di me, uno e novanta circa, biondo, occhi nocciola, pelle marrone chiaro e moderatamente palestrato, si avvicina al mio tavolo.
Mi parla in italiano, ma con quella che subito mi sembra una cadenza americana, benché leggera.
«Finalmente l’ho trovata, quasi non ci speravo» mi fa.
«Salve» gli faccio, guardandolo con circospezione.
«Mi scusi, lo so che oggi è in vacanza, ma lei è difficile da reperire, ed ho colto al volo la prima occasione utile che ho avuto. Mi chiamo Raymond Douglas, per gli amici Ray» e mi porge la mano.
Incuriosito, non mi nego. «Piacere, Scott Overy» e gliela stringo.
«Scott Overy?» dice, guardando il telefono. «La foto corrisponde, ma il nome che mi hanno dato no» e mi mostra lo schermo, in cui è aperta una sua conversazione di chat con una persona che non conosco.
Guardo la foto, leggo il nome. «Sì, alcune persone mi conoscono col nome che le hanno dato, ma mi chiamo Scott Overy. E quello nella foto sono io. Non si preoccupi, sta cercando proprio me».
«Ok, Mr. Overy. L’importante è averla trovata. Le chiedo solo pochi minuti, almeno per introdurle il motivo per cui sono qui. Dopodiché, se vuole continuare ad ascoltarmi, proseguo, altrimenti me ne vado senza battere ciglio» e dà una rapida occhiata alla sedia all’altro capo del mio tavolino.
«D’accordo Mr. Douglas, si accomodi. Mi dica pure.»
Da qui in poi tutta una faccenda che evito di spiegare nei dettagli, perché è un discorso lungo e non è questo il momento adatto, quindi la faccio breve.
Raymond Douglas, un ingegnere plurispecializzato e imprenditore proveniente da New York, aveva bisogno di commissionarmi un lavoro.
Ero arrivato al suo orecchio attraverso il passaparola, e aveva pensato che facessi proprio al caso suo.
Per rintracciarmi aveva dovuto ripercorrere il passaparola a ritroso, mettendoci perciò un po’ di tempo prima di avere qualche informazione.
Non era riuscito ad ottenere un mio contatto, né a sapere dove abitassi di preciso, ma un mio nome e una foto sì. Aveva saputo anche dove sarei stato oggi; ne avevo parlato casualmente ad una mia amicizia, la persona che tempo prima aveva dato il là a questo giro di voci arrivato poi anche a lui.
Così me lo ritrovo oggi al tavolo ad ora di pranzo, durante il mio compleanno, festeggiato di nuovo dopo tanti anni, con una giornata solitaria di totale nullafacenza e ignoranza, sotto il sole rovente di Barano, mentre, già più che allegro di nepalese e svariati Piña Colada, stavo sorseggiando la mia prima pinta del pranzo, e stavo aspettando di divorarmi anche il cuoco.
E mi viene a parlare di lavoro.
Lo avrei voluto mandare a quel paese sulle prime, ma stavo troppo appaciato, e tutto sommato sembrava anche simpatico, con quel suo fare bonario.
Inoltre si è subito scusato per il momento inopportuno, perché era stato avvisato che ero in pausa dal lavoro e che non mi piace essere tallonato, ma era l’unico modo per beccarmi a stretto giro, e non voleva rischiare di rimandare a chissà quando.
A quel punto, anziché mandarlo via, mi viene l’idea di prendere in mano la situazione, e farlo diventare una buona compagnia per coronare la giornata pacchiana.
Così, dopo i primi minuti in cui mi introduce la faccenda, gli dico che avremmo potuto continuare a parlarne solo se avesse pranzato con me, per poi passare il resto della giornata a spassarcela insieme.
Non solo ha accettato, ma è sembrato subito a suo agio con la situazione, come se non aspettasse altro. Era venuto anche in costume e con la borsa da mare.
Abbiamo pranzato, parlato di tutto ciò che dovevamo e passato insieme il pomeriggio. E adesso eccolo là, a fare il provolone al bancone del bar con quelle due ragazze.
Ray. Davvero un bel tipo, molto componente e pieno di spirito. Mi sa che mi sono fatto un nuovo amico.
Circa la sua proposta, inizialmente l’ho rifiutata senza pensarci due volte. Mi ha chiesto di occuparmi di una roba che non tratto più.
Tuttavia, dopo aver ascoltato i motivi del mio rifiuto, ha fatto di tutto per rendermi il lavoro fattibile e stimolante, lasciandomi carta bianca sulle modalità di svolgimento, e facendomi anche una corposa offerta economica.
A queste condizioni è difficile rifiutare, ma gli ho comunque detto che ci devo pensare con calma, certamente non oggi.
Intanto la console sta passando dal lounge del tramonto al ritmo della serata.
Ray mi sta facendo cenno di chiudere il laptop e raggiungere lui e le due giovanotte con cui ha attaccato bottone, e con cui adesso stanno prendendo un drink.
Già un quarto d’ora fa – dopo essersi svegliato, aver fatto un tuffo a mare, essere tornato ed avermi visto al pc – mi ha sollecitato, dicendomi che non era il momento di mettermi a scrivere, qualunque cosa stessi scrivendo. Poi l’ho visto guardare dritto verso il bar.
Gli ho detto di darmi ancora un po’ di tempo e di avviarsi, che mi era venuta l’ispirazione per fare una cosa, e che a breve avrei finito.
Volevo aprire questo blog.
L’idea mi era venuta anni fa, ma all’interno di un progetto più ampio, e c’era molto da maturare prima di partorirlo. Una lunga gestazione.
Immaginavo che lo avrei aperto nel giorno del mio 38° compleanno, anche se non ne ero certo.
Questioni simboliche, ma anche sostanziali.
E così è andata.
Ieri notte la gestazione si è conclusa, iniziando anche il parto. Quindi stamattina ho messo il laptop in borsa, per ogni evenienza.
Il lavoro vero e proprio, quello di ore e ore ininterrotte, lo faccio solo a casa, dove posso avvalermi della workstation con pc fisso. Però il laptop lo porto spesso con me, in quei giorni che sto in giro e so che potrei comunque avere tempo e modo di farmi venire qualche idea, svilupparne altre già abbozzate, o cose cosi. Giorni come questo.
Eppure quasi non ci ho pensato tutta la giornata. E non ci stavo pensando fino ad un paio di ore fa, quando dopo pranzo, ritirati sui lettini, sotto gli ombrelloni, finito di chiacchierare e spenta la torcetta della controra, Ray ha preso sonno, ed io sono rimasto tra me e me, nelle belle ore che ti conducono dolcemente verso il tramonto.
Stavo quasi per addormentarmi anche io e raggiungere Ray, quando mi assesto in quella condizione dove non sei sveglio e non stai dormendo.
Lì, in quella zona mediana, mi è venuto l’input. Come quando il vento, all’improvviso, nel bel mezzo della bonaccia, ti attraversa e ti chiama. Era il momento.
Mi desto, mi metto a gambe incrociate sul lettino, laptop sulle gambe e via.
L’hosting già lo avevo, quello che uso per lavoro. Anche il dominio lo avevo registrato da qualche anno, insieme ad altri accumulati nel tempo, che non si sa mai.
Configuro tutto tra pannello di controllo e client, carico il CMS ed apro i battenti. Un’altra mezz’ora per arrangiare la grafica, ed eccomi qua a scrivere questo primo post. Ci sarà tempo poi per curare eventualmente i vari dettagli strutturali ed estetici.
È dai primi anni 2000, quando ero adolescente, che apro e chiudo blog, oltre a leggere quelli degli altri. Poi mi sono preso una discreta pausa dall’averne uno, fino ad oggi.
Nonostante sia passato del tempo, è ancora la forma digitale che preferisco per creare e condividere. Anche perché, essendo di fatto un sito web, è caratterizzabile senza limiti, se ci lavori anche di codice e grafica. Può diventare un’opera d’arte dinamica, che procede e cambia con te.
Così come ho sempre preferito la blogosfera come ambiente digitale. Non devi chiedere il permesso a nessuno per avere uno spazio solo tuo, in cui essere e creare liberamente, in un contesto di altre individualità che fanno altrettanto, tra cui avventurarti e con cui eventualmente entrare in contatto. Persone sconosciute che post dopo post possono diventare letture e compagnie quotidiane, amicizie di penna, o magari di più.
Internet, come il mondo, è sempre in movimento, continua a cambiare, adesso ampliandosi verso nuove modalità di interconnessione, esperienze e dinamiche, tra Web3, AI e visori. E continuerà a farlo.
Quello che non cambia, per me, è che aprire un nuovo blog è sempre una bella emozione.
Ma Ray sta sbracciando vistosamente.
Lui e le ragazze stanno al secondo drink, e la console sta entrando nel vivo della serata.
Mi sa che come nuovo primo atto del blogger eterno che è in me, può bastare.
Adesso è il momento di chiudere questo post, il laptop, e andare in pista.
Amo ballare.
Lo faccio anche da solo a casa, ma farlo con un nuovo amico e due allegre ragazze che vogliono divertirsi, tra la gente, con strobo, ghiaccio secco e un dj in carne ed ossa in console che ti fa mixaggi e transizioni, è la fine del mondo.
Una roba senza paragoni, se ti piace il mood ovviamente.
Dj di cultura, tra l’altro. Ha appena messo “Elena (Manox Rmx Edit)” di Marc Korn feat. Miani. Una canzone di una decina di anni fa, versione remix. La sento raramente nelle serate, ma è nelle mie playlist.
Alcune amiche mi prendono in giro quando la metto in macchina. Dicono che è trash. Altri amici invece dicono che sembra una canzone di chiesa.
Per me invece è bellissima. Porca miseria se lo è.
Amo la musica, ascolto di tutto, e mi piace ampliare gli orizzonti, alla ricerca di cose vecchie e nuove.
Ma niente mi manda fuori di testa, mi apre il cuore e me lo fa zampillare di gioia come la dance.
Soprattutto quando è così solare e ricca di vitalità. Ti accende l’estate.
Vado, scappo, volo. Elena chiama. Si balla.
Sei la luce che mi porta via
Che allontana questa nostalgia
…